Fin dall’antichità la presenza femminile nel mondo dell’arte si attesta come notevole ed importante: la donna come musa ispiratrice, la donna come uno dei soggetti maggiormente rappresentato, la donna come artista. In un panorama artistico nettamente predominato dalla figura maschile, non mancano prove della produzione femminile. L’arte di dipingere, seppur tradizionalmente considerata un’invenzione femminile ad opera della vergine corinzia che traccia su un muro il contorno dell’ombra dell’amato, ci regala poche testimonianze di donne attive nell’arte in età antica. E’ comunque possibile rintracciare la loro presenza all’interno delle botteghe attraverso testimonianze indirette. Si ha così notizia di artiste attive in età antica grazie alla letteratura, da Plinio a Boccaccio, e al rinvenimento di reperti ceramici che raffigurano donne che decorano vasellame. Ne è un meraviglioso esempio l’idria conservata a Milano in cui figura, fra i vari artigiani della bottega, una donna impegnata nella decorazione di un grande cratere. La documentazione artistica del lavoro femminile si rende più agevole in età medievale. Esistono nomi, attribuzioni certe e opere conservate fino ad oggi che presuppongono una vivace partecipazione femminile nella creazione di manoscritti e nell’esecuzione di miniature. Una vivacità però che sembra circoscritta alla vita monacale, si fatica infatti a trovar traccia artistica femminile all’esterno delle mura dei monasteri.
Dal periodo rinascimentale aumenta il numero delle donne attive in campo artistico, seppure la loro presenza venga intesa come un’intromissione in un ambito prettamente maschile. A tradire questo comune pregiudizio è Giorgio Vasari, che nonostante elogi le donne impegnate nell’arte, ne sottolinea la loro inadeguatezza a sporcarsi le mani con colori e materiali come se questo fosse un fatto esclusivamente maschile. La vita di bottega e lo sporcarsi le mani non erano dunque adatti a una donna, ma l’arte era un aspetto da non tralasciare nell’educazione della donna colta. Ne deriva che la situazione ideale per una donna che desiderasse diventare artista era quella di essere figlia di un pittore! Non sono certo pochi infatti gli esempi. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento si assiste ad una nuova presa di coscienza che avvantaggia le artiste facendo sì che il loro numero cresca esponenzialmente. Si riflette finalmente sull’importanza della formazione artistica rendendo possibile l’apertura delle prima scuole d’arte femminili. I risultati di questo rinnovato pensiero si riflettono sul Novecento, secolo che ha visto l’affermarsi di grandi nomi di sesso femminile in diversi ambiti artistici. Premi, mostre e concorsi continuavano però a vedere protagonisti, sia come membri delle commissioni che come partecipanti, gli uomini. Un’ulteriore spinta viene perciò data dal movimento femminista, tanto che a partire dai primi anni Settanta le gallerie cominciano ad ospitare percorsi espositivi interamente femminili. Non sorprende dunque constatare, attraverso questo breve excursus, come la donna sia presente in maniera attiva in campo artistico nonostante il comune pregiudizio. Sorprende, invece, come la storiografia abbia taciuto il mondo della produzione artistica femminile fino agli ultimi decenni dello scorso secolo, svolgendo studi in questa direzione solo dal 1980.
Il festival "Donne verso il mare aperto" propone un percorso interamente dedicato alle donne attive nel mondo dell’arte intitolato "Meglio dirselo" all’interno del quale è stata pensata l’esposizione Double Identity con opere di Valentina Burel e Lucia Zavatta. Double Identity è un racconto per immagini di due percorsi di ricerca che sperimentano il disegno e la pittura per approdare alla grafica. Due percorsi apparentemente distinti, fatti di una intenzione espressiva ben riconoscibile, due percorsi che travalicano la necessaria individualità per intrecciarsi in svariati punti di connessione fino a convergere nel risultato di rendere evidente il dialogo fra due diverse sensibilità. Double Identity è dunque il racconto del cammino parallelo intrapreso da Valentina e Lucia in una poetica che le accomuna nell’essere donna e artista.
La fluidità dell’opera di Valentina Burel, espressione di un’ininterrotta ricerca sia nella resa pittorica che nell’uso di una tavolozza di colori, che rende quasi liquefatto l’oggetto della sua opera spesso riconoscibile in parti del corpo umano rappresentate restando in bilico sul labile confine fra figurazione e astrazione, percorre lo stesso binario dell’iperrealismo facilmente rintracciabile nel lavoro di Lucia Zavatta che sfocia in esiti simbolisti volti a indagare ciò che non è direttamente visibile all’occhio umano. Le due indagini confluiscono in una condivisa sintesi grafica che rende la fluidità di Valentina e l’immaginario di Lucia due facce di una stessa medaglia che sembrano non guardarsi, ma in realtà sussistono l’una grazie all’altra. Testo critico di Patrizia Cauteruccio.
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